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Quando l'integrazione non è una favola

Quando l'integrazione non è una favola

Un anno fa partivano i corridoi umanitari dalla Siria


RIPRODUZIONE RISERVATA © Copyright ANSA

di Michela Suglia


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E vissero sani e salvi. Si chiude così la favola dei migranti portati in Italia con i corridoi umanitari. E' passato poco più di un anno dai primi arrivi. E ora, lontani da bombe e campi profughi, a preoccuparli sono una grammatica da imparare e un lavoro per restare. La favola è diventata realtà per 791 persone, soprattutto siriani, sbarcati finora su un tappeto rosso specialissimo. Sono uomini donne e bambini bloccati da guerra e disperazione e rimessi in moto dalla comunità di Sant'Egidio e dalla Federazione delle chiese evangeliche. L'obiettivo è aiutarne 1000, con altrettanti visti, e dimostrare all'Europa che si può.


Più difficile è starci, nella realtà. Per molti il lavoro non c'è, è occasionale o molto diverso da quello che si sapeva fare. Altri si sono buttati su corsi di formazione o l'università interrotta. La strada per l'integrazione è ancora lunga.

Impavidi, i bambini vanno quasi tutti a scuola. Due erano nelle pance delle madri, all'arrivo. Obaida invece nascerà a giorni e sarà il primo concepito qui.

Hamza e il figlio che verrà

Magazine Corridoi Umanitari
Magazine Corridoi Umanitari - RIPRODUZIONE RISERVATA

Hanno preso quello che avevano, l'hanno strizzato in una valigia e così hanno afferrato la seconda chance che la vita gli ha regalato su un volo per Fiumicino. Poi hanno disfatto la valigia e lentamente quello che c'era dentro si è allargato, adattandosi alla casa dove abitano oggi. Sono i quasi 800 migranti che, grazie al progetto dei corridoi umanitari gestito per la prima volta da governo italiano, comunità di Sant'Egidio e chiesa valdese, hanno lasciato Siria e Libano senza rischiare la vita nella stiva di una barca e con la possibilità di chiedere asilo. I primi 93 sono atterrati il 29 febbraio 2016 e non si aspettavano striscioni e flash in aeroporto.

Un anno dopo l'integrazione procede ma non è una favola. Benvenuti nella realtà che a volte si ferma per l'italiano incerto, altre accelera spinta da motivazioni ed età. Per tutti il pensiero fisso è il lavoro. Difficile da trovare. Difficile superare l'idea di poter ripartire dall'ultimo stop, prima della guerra, come se Aleppo, Roma o Torino fossero set diversi per gli stessi bisogni e desideri.

Se n'è accorto Hamza, 29 anni quasi metà passati a lavorare in una pasticceria a Homs. A Roma ha fatto un corso da pizzaiolo. ''Mi piace fare il pane o la pizza ma se trovo un altro lavoro, va bene'', dice nel suo italiano fatto di verbi all'infinito e parole abbozzate. L'Italia prima di partire se l'immaginava bellissima. ''E così è'', sorride. Ma a cercare lavoro sono tanti, troppi. ''In Italia c'è tunisia marocco africani, c'è tanta gente - elenca, facendosi capire - e questo per lavoro è male, troppo male''. Ma la speranza non l'ha persa. Non può, ora che sta per diventare di nuovo padre. Sua moglie è all'ottavo mese. Dopo Rahaf che ha 2 anni, aspettano un maschio. Si chiamerà Obaida, figlio dei corridoi umanitari al 100% perché nato e concepito in Italia. ''In arabo Obaida significa forte..solo forte.. così'' e alza i pugni per farsi capire. Con Hamza ci sono anche suo padre e due fratelli. Uno è Dyia, 12 anni occhio furbo e una protesi per la gamba persa in Siria. Abitano tutti insieme in un appartamento, a pochi passi dal municipio di Pomezia.

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Storie di migranti con la valigia, un anno dopo

Storie di migranti con la valigia, un anno dopo

A casa di Mahmoud tra caffè e judo

Magazine Corridoi Umanitari
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Sono in cinque a casa di Mahmoud a Campoleone, tra Roma e Latina. La casa che aveva a Homs era più grande e l'aveva imbiancata lui. ''Ma questa è sicura'', ripete e sorride. In cucina c'è Issam, sua moglie che riempie di nuovo la moka perché ha scoperto il caffè italiano. Aveva trovato uno stage in una mensa, così poteva tenere il velo in testa dato che è musulmana. Ma per arrivarci la strada è trafficata e lunga, spiega. Per ora fa la mamma.

I tre figli vanno a scuola. Il più grande, 11 anni, fa judo e gli occhi di Mahmoud brillano quando mostra le medaglie che ha vinto. Due ori per un'arte marziale mai praticata prima. E' per dargli un futuro che sta cercando un lavoro. Per ora ha un contratto a chiamata alla Procter & Gamble. ''Mi piace, metto i tappi sui contenitori di shampoo e sapone. Va bene così, non ho problemi con il lavoro''. Ma aggiunge: ''Devo trovare un lavoro indeterminato - e lì la parola incespica a lungo - è per la vita in Italia, perché ho tre bambini..''.

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Mirvat, libri e determinazione

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Pane e determinazione anche per Mirvat, sguardo da modella e molta voglia di studiare. Ha quasi 25 anni e ad Aleppo le mancava un esame per laurearsi in letteratura inglese. Ma la voglia di futuro era più grande e da qualche mese l'ha portata a Ferrara. Grazie a una borsa di studio dell'università, sta frequentando i corsi di lingue e letterature moderne. Da zero. ''Qui mi trovo bene, ogni tanto ho un po' di nostalgia. Mi mancano i dolci arabi e Aleppo. E' una città che ti abbraccia quando ci entri'' e gli occhi le si sciolgono. Ma la guerra ha fermato tutto e andarsene era l'unica cosa da fare. Più forte anche della paura del mare.

''Con la mia famiglia abbiamo pensato di andarcene in Svezia dove sta mio fratello, passando per la Turchia in mare - racconta - Ma all'ultimo mia madre ha deciso di non rischiare. Io invece ci sarei andata, anche su una barca, perché per una persona che ha vissuto la guerra per tre anni perdendo amici e vicini... purtroppo, siamo abituati''. sembra più difficile abituarsi ad avere meno. La sua famiglia era benestante, sua madre aveva quattro fattorie e una casa in montagna, tutte bruciate. ''E' vero, sono cose, solo cose ma devo abituarmi anche a non averle più''. 

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Quando l'integrazione non e' una favola

Quando l'integrazione non e' una favola

'Siamo angeli custodi ma raccontiamo la verità'

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Soddisfatti, orgogliosi e a volte increduli per avercela fatta davvero: il sogno nato a Lampedusa dopo il naufragio del 3 ottobre 2013, è diventato realtà grazie a loro. Da più di un anno valdesi e cattolici di Sant'Egidio hanno unito le forze per seguire i corridoi umanitari, il progetto a cui ha aderito il governo italiano e ancora unico in Europa. A differenza degli altri migranti, i 791 arrivati in aereo possono chiedere asilo. Finora l'hanno fatto 79 e tutti hanno avuto l'ok. Ma la strada non è in discesa. 

''Il progetto ha grandi potenzialità e anche criticità'', osserva Giulia Gori, referente per la federazione degli evangelici. Dal suo ufficio vicino il Quirinale segue storie e problemi di chi è arrivato. Ormai li capisce al volo. ''Le donne sono spesso più flessibili, più portate a mettersi in gioco rispetto agli uomini - osserva - Per loro è più frustrante confrontarsi con uno status socio-economico che non hanno più. Nella loro cultura avevano l'onere e l'onore di traghettare la propria famiglia''. Qui spesso si perdono in una parola di italiano che non riescono a pronunciare. Vanno in ansia, sembra ansia da prestazione.

''Sicuramente c'è un'ansia data dal fatto che hanno perso tutto'', è l'idea che si è fatta Maria Quinto, altro angelo custode per Sant'Egidio. ''Andando nei campi profughi in Libano, da dove vengono molti di loro, ho avuto la sensazione di quello che hanno vissuto prima e dopo: è come se io, che nella vita faccio un'insegnante, all'improvviso non avessi più la scuola e quindi dovessi reinventarmi''. In più c'è da confrontarsi con il mondo del lavoro italiano: non solo un'altra organizzazione di lavoro o i tempi di vita più veloci ma anche il precariato, il lavoro che manca. O certi tipi di lavoro più rari. ''Alcuni ad esempio riparavano piccoli oggetti - continua Maria - è il caso dei carrozzieri, che in Italia sembrano superati dalla facilità dei ricambio''.

Anche Giulia, che difende a spada tratta i corridoi in nome della dignità 'ritrovata', parla chiaro: ''La favola dell'integrazione facile, supportata da questo progetto che è fuori dall'ordinario, non racconta la verità. L'integrazione si scontra con differenze culturali, religiose. A volte ci sono aspettative molto alte da parte di chi arriva o la speranza, legittima ma irrealistica, di ricominciare esattamente dove si era fermata la vita in Siria. Noi cerchiamo di dirgli la verità, fin dall'inizio''.  Oltre a fortuna e motivazione, una soluzione è nel tempo. Ne è sicura Maria: ''E' un percorso lungo. Il primo anno si mettono le basi e poi si continua a costruire''. Sforzi spesso sconosciuti ai bambini, che hanno mille marce in più. ''A uno di loro ho chiesto di dov'era. Ha risposto: 'Sono un po' italiano e un po' siriano'''. Facile no?

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Si ringrazia per il disegno di copertina Francesco Piobbichi

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