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Alajmo, la felicità e l'estate del '78

Alajmo, la felicità e l'estate del '78

Un 'romanzo' sulla propria storia, una scrittura terapeutica

ROMA, 21 giugno 2018, 11:57

di Paolo Petroni

ANSACheck

- RIPRODUZIONE RISERVATA

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ROBERTO ALAJMO, ''L'ESTATE DEL '78'' (SELLERIO, pp.174 - 15,00 euro).
    Un libro questo che potrebbe ingannare un lettore frettoloso o che resti legato solo alla trama, magari a un aspetto di denuncia sulla nocività di certi farmaci, perché è un libro che ha la sua forza proprio nella sua semplicità e naturalezza, frutto di una grande attenzione alla scrittura evidentemente, che gli dà una profondità e una sensibilità mirabile e coinvolgente nel farsi educazione sentimentale esemplare, grazie alla capacità dell'autore di mettersi in gioco restando però narratore.
    Diciamo subito, quindi, che il 1978 del titolo non è quindi qui, come storicamente fu, l'anno dell'omicidio Moro, di conquiste di leggi come quella per l'aborto o la Basaglia, perché il romanzo, e mi si permetta di chiamarlo così, non parla di Storia, ma della propria storia.
    Un libro da assaporare quindi, specie per chi già ami Alajmo e in particolare le sue storie e i suoi ritratti di bambini e ragazzi. Solo che questa volta il ragazzo è lui stesso e la scrittura, che da sempre sappiamo quanto sia necessaria e terapeutica, si misura con realtà intime e dolorose, scava e fa i conti lievemente ma sostanzialmente col proprio passato e il rapporto con la madre, donna esemplare, affascinante ma difficile, insegnante che porta la lezione di Don Milani a Palermo, pittrice di certa qualità ma con la coscienza dei propri limiti e sofferente come molti artisti. Ma madre innanzitutto, ovvero quella figura essenziale, ineludibile nel bene e nel male nella vita di tutti.
    Insomma in queste pagine troviamo il quotidiano e il privato, citato magari il Rischiatutto, le canzoni di Springsteen o la pasticceria Magrì, oltre a un terribile medicinale, lo Spasmo Oberon, barbiturico, stupefacente, supposte analgesiche che danno una sorta di narcosi quasi inebriante, creano problemi nel rapporto con la realtà, e soprattutto danno dipendenza, come accade appunto a Elena, la madre che da tale tunnel non riuscirà più a uscire. Il farmaco verrà ritirato dal commercio nel 1986.
    Le informazioni sul farmaco, sui suoi effetti, sono quindi doverose e necessarie, ma anche queste non sostanziali, sono una delle cause, se si vuole la causa, ma qui noi grazie al mettersi a nudo del figlio, ci troviamo a parlare degli effetti, delle conseguenze, del riverberare delle cose nella vita di questi e degli altri, gli anni prima e dopo quell'estete in cui l'autore, ragazzo che studia per affrontare la maturità, la incontra, e sarà l'ultima volta, seduta fuori del cancello della casa di Mondello, che lo aspetta per salutarlo, momento da cui prende avvio il racconto. Vittorio e Elena, i genitori, due anni prima si erano ''finalmente'' separati, ''avverbio su cui esitare molto. C'è incorporato il sentimento controverso di un bambino degli anni Settanta, lacerato tra la smania di mantenere unita la famiglia e il desiderio che la smettano di litigare''. E poi, altra nota essenziale, ''il fatto di chiamarli oggi Vittorio e Elena non deve sembrare una confidenza indebita... mi serve semmai per parlarne col maggior distacco che si deve ai protagonisti di un'opera d'artificio''.
    Insomma una madre amata e che c'è e non c'è, cui viene restituita un'umanità forte e fragile assieme. Un libro sui dolori e le felicità della vita, sul saperla cogliere o meno quando passa e si mostra in certi inafferrabili momenti che poi si rivelano essenziali: ''bisognerebbe provare a stilare un repertorio delle gioie irrecuperabili.... gioie che avevamo in pugno e abbiamo lasciato andare, se non gettato via''. E sono rivelatori le pagine sulla felicità, traumatica, perpetua, condivisa e così via: ''nella maggior parte dei casi la felicità è una memoria trascorsa. Una cicatrice, anzi. Una frattura mal ricomposta che quando cambia il tempo fa male''. e questo libro serve proprio a far i conti con le proprie ferite, le proprie felicità non colte e magari a imparare a coglierne di più, dopo che l'autore è diventato padre e c'è Arturo.
   

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